Dovydas Laurinaitis
Quando mi preparavo a fare la mia performance sul filobus, la preoccupazione principale dei miei amici era che avrei potuto essere picchiato. Non sapevo nemmeno se mi fosse permesso fare questa performance; era l’inizio del secondo anno della pandemia, quando le mascherine erano ancora obbligatorie, e io invece portavo una bolla di plastica sulla testa.
Ero anche incerto se fosse necessario chiedere il permesso all’autorità dei trasporti. L’ho fatta comunque. La performing art interrompe, sovverte, critica; chiedere il permesso mi sembrava poco rispettoso di questi obiettivi, così l’ho fatto aspettando che mi venisse vietato, cosa che non è mai successa.
Un giorno sono stato buttato fuori dall’autista dell’autobus, dopo un’ora. Mi ha filmato e mi ha urlato contro, dicendomi che stavo disturbando tutti. Ho avuto soprattutto conversazioni con le persone, senza rendermi conto di quanto fossero polemiche. I pochi passeggeri a bordo si sono aggiunti all’autista e mi hanno detto “Non ti vogliamo qui!”.
Ho trovato queste reazioni molto interessanti, perché nonostante quello che dicevano, questi spettatori condividevano molto di loro stessi con me.